Letizia Battaglia

 

(5 marzo 1935)


«Mi prendo il mondo ovunque sia», è il marchio di qualità di Letizia Battaglia, la più nota fotografa di mafia: siciliana, nel suo rifugio nel centro storico di Palermo tra immagini che l’hanno resa famosa, la prima donna europea insignita a  New York del Premio “Eugene Smith”, il celebre fotografo di «Life» (1985).

In quarant’anni di lavoro con la Leica M2, sempre nel bianco e nero nitido e crudele – «il digitale mi fa paura, il colore non m’interessa» – ha documentato quel mondo, ovunque fosse, che faceva e fa paura: potere criminale, prepotenza e corruzione, sangue. Nella sua Sicilia, ma non soltanto. 

 


Nei primi anni Settanta comincia a fotografare per il quotidiano «L’Ora» di Palermo e per l’agenzia «Informazione fotografica».

Aveva bisogno di guadagnarsi da vivere, dopo essersi sposata e separata giovanissima (oggi è mamma e nonna, felice di esserlo).

Dunque, fotoreporter: ossia, immagini di cronaca scattate un momento dopo il fatto per il giornale di denuncia della sinistra, negli anni di piombo della sua città insanguinata dai delitti di mafia. Anche cinque omicidi al giorno.

Il corpo a faccia in giù nel grumo rosso cupo; intorno, un cerchio sempre più stretto di schiene curve per osservare, non per testimoniare. E lei, unica donna fra i colleghi fotografi, che cerca un varco con l’obiettivo in mano, spintonata, respinta, dirottata verso l’angolo dove donne dal volto coperto con il velo nero piangono e si abbracciano.

Non solo fotografa di mafia. Perché la cornice della mattanza rivela il contesto: miseria, disordine, contrasti, quartieri degradati e splendidi palazzi, volti strafottenti e sguardi intimoriti. Non cerca la bella immagine o l’inquadratura perfetta («ho sbagliato tante volte, non sono brava con la tecnica»); semmai, cerca gli sguardi e li trova soprattutto nelle donne e nei bambini.

Sguardi che implorano, chiedono, denunciano, sfuggono. Non c’è un solo sguardo sereno nei volti fotografati da Letizia.

 

Anni Ottanta. Il livello di attenzione si alza. Letizia riprende i fratelli Salvo insieme con Giulio Andreotti all’Hotel Zagarella, e quelle immagini sono agli atti del maxiprocesso antimafia. Insieme con il collega e suo compagno per vent’anni Franco Zecchin va in giro per città e paesi della Sicilia, nelle piazze e nelle strade, con mostre ambulanti perché i siciliani vedano, si accorgano, capiscano. Memorabile la mostra fotografica a Corleone: una folla di curiosi che si dirada e scompare quando tra le immagini spunta quella di Luciano Liggio.  «Credevano che la mafia uccidesse i mafiosi», è stata la riflessione di Letizia parlando dei siciliani.

E invece: nel 1980 viene ucciso Piersanti Mattarella, presidente della Regione; nel 1982, ci sono i solenni funerali del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, di sua moglie, della scorta; nel 1983 quelli di Rocco Chinnici, consigliere istruttore della Procura di Palermo; Falcone e Borsellino… Letizia è lì con la Leica impugnata come un’arma dall’obiettivo inesorabile.

Speranza e stanchezza insieme. Cosa è successo dopo? Cosa è successo al movimento antimafia? Le chiedevano giornalisti e fotografi venuti ovunque dal mondo. Letizia cercava risposte e non le trovava.

Nel 2000-2003 dirige con Simona Mafai la rivista bimestrale «Mezzocielo» realizzata, fondata, voluta da donne.

Ha una sua piccola casa editrice. La vogliono per mostre.

Nel 2003 lascia Palermo e se ne va a Parigi («non sopportavo più il silenzio»); torna dopo appena due anni («la mia vita è in Sicilia»). 

Riprende il percorso di testimonianza nelle scuole. Racconta cosa vuol dire per lei fotografare. 

In un liceo napoletano gli studenti le chiedono e lei risponde:

«Una fotografia deve avere dietro di sé un pensiero;

– c’è sempre un rapporto emotivo con la realtà che si osserva;

– spesso sbaglio esposizione, inquadratura: vado avanti lo stesso fino all’immagine giusta, giusta per me;

– non fotografo quasi mai gli uomini (non mi vengono bene);

– fotografo le donne, questo sì, anche perché in loro ritrovo me stessa;

– in ogni caso, in genere fotografo persone;

– mi avvicino molto con l’obiettivo, uso il grand’angolo;

– detesto fotografare pensando alla rivista che mi pubblicherà le immagini (la copertina, quante pagine…);

– ho molto rispetto per i fotografi americani, e per le grandi fotografe (Tina Modotti, per esempio);

– il mio mestiere è quello di documentare; poi, se ci scappa anche la bella foto…

– i morti di mafia? L’odore del sangue non mi ha più abbandonato».

Ha un progetto per il futuro: fotografare i paesaggi. I paesaggi della natura, i paesaggi dell’anima.

Fonte: www.enciclopediadelledonne.it