Artigianato

La filatura del lino

La pianta di Lino è assai preziosa e utilizzata sin dall’antichità.

Gli antichi Egizi ne ricavavano abiti e avvolgevano le mummie nelle sue tele; i Fenici invece - grandi navigatori - la acquistavano proprio in Egitto per esportarla in Inghilterra e in Irlanda, ma anche in Sardegna dove, per merito loro, arrivò nel corso dei secoli IX e VIII a.C.

La coltivazione del lino scopare nell'Isola nei primi del ‘900, e sino ad allora le nostre antenate si occuparono della "filatura", per realizzare pregiati tessuti. 

Nella soleggiata Valle del Tirso era in uso fare spazio al lino in mezzo ai campi di grano, o lateralmente a questi. 

La semina avveniva in autunno - a ottobre - , ma per la raccolta degli steli e dei semi bisognava aspettare giugno.

Dopodiché, aveva inizio un lungo processo di lavorazione. 

Gli steli maturi (che avevano raggiunto una colorazione gialla) venivano fatti essiccare, mentre i semi, estratti tramite “battitura”, erano utilizzati alternativamente per la semina successiva o per comporre ricette di medicina popolare.

 

I semi di lino, infatti, venivano impiegati per curare le infiammazioni esterne o interne. Le nostre ave avevano una ricetta curiosa per combattere i vermi intestinali: tagliavano a pezzi un filo di lino e lo immergevano in un bicchiere d’acqua, recitavano una preghiera e lo facevano bere al malato.

Per estrarre le fibre tessili gli steli erano sottoposti a macerazione: immersi in corsi d’acqua o stagni per circa due settimane, e fermati con grandi pietre. Questa pratica tuttavia era contestata dai pastori, che portando le bestie ad abbeverarsi nello stesso luogo, temevano che le sostanze nocive rilasciate dalla pianta favorissero la riproduzione delle zanzare, e quindi della malaria.  

I fasci venivano asciugati e battuti, poi con dei mazzuoli -per ammorbidirli - e si procedeva alla “gramolatura”, cioè alla separazione delle fibre vegetali dalle altre parti della pianta. L’attrezzo impiegato era costruito in legno e prendeva il nome di gramola (in sardo àsgada, àrgada, ògranu), si componeva di un cavalletto e di un asse mobile.

 

Ottenuti i mazzi di fibre si passava alla filatura. L’operazione spettava alle donne, che “pettinavano” il lino con su pèttene e lo avvolgevano sulla rocca, per poi tirare e torcere un mazzetto sottile che portava al fuso. Il fuso lo ponevano su un fianco e lo facevano ruotare a mano, in modo da creare un filo continuo alimentato man mano dalla stessa tessitrice, ma le fibre dovevano essere inumidite, e per facilitare l'operazione le donne bagnavano il lino con la saliva.

La fase finale consisteva nella sbiancatura, fatta a caldo in sa lissìa, una soluzione ottenuta mescolando acqua e cenere. Con le fibre più lunghe e in salute si realizzavano stoffe pregiate, le altre invece, dette “stoppa” (isthuppa) erano impiegate per costruire utensili.

Oggi come ieri del lino non si butta via niente. I semi vengono utilizzati per cucinare e condire insalate, l’olio in cosmesi o per dipingere, gli steli per realizzare ancora abiti. Per conoscere gli attrezzi della lavorazione basta recarsi al Museo del Lino di Busachi, dove si trovano diverse testimonianze fotografiche delle nostre antenate, oppure guardare questo video dedicato alla lavorazione del lino in Sardegna.


Storia del cestino sardo

Sa corbula o croba: differenze, usi e significato

Senza offendere l’ape regina è alle api operaie che spetta la corona per il ruolo ricoperto nell’alveare. Questi splendidi esemplari fanno pulizia, nutrono e si adoperano per costruire il ricovero dell’intera colonia. Le operaie si danno talmente da fare per i propri simili, che fanno pensare alla grande operosità delle donne sarde all’interno della famiglia, a quell’ingegnosità che difficilmente trova pari.

Nelle dimore sarde, fino mezzo secolo fa, tutto era rigorosamente fatto a mano. L’artigianato rendeva le case così uniche che ancora oggi, chi ne conserva, può vantarsi della ricchezza delle opere, delle decorazioni e dell’immenso lavoro che sta dietro gli oggetti, portato avanti spesso da donne: le api operaie di casa che allevavano e realizzavano al contempo tantissime cose.

Zelanti e precise, le donne sarde erano le artigiane-artiste di cesti personalizzati, intrecciati e ricamati con grande amore e cura, personalizzati in mille forme e sfumature. Fra questi c'era sa corbula (corbe, colvula, crobi) a vantare una tradizione secolare nell’isola.

Basta sfogliare vecchie foto di famiglia o frugare negli archivi regionali per fari un'idea di quanto il suo uso fosse radicato.

Gruppi di donne impegnate nell’intreccio che avanzano con fare deciso e la corbula in equilibrio sulla testa. Quanta bellezza ed eleganza esprimono quelle immagini in bianco e nero?

La corbula era un ampio cesto privo di manici di forma conica, utilizzato fino alla fine degli anni ’50 nella cultura agro-pastorale. Sono “corbule” sarde anche i piccoli cestini che formano i gioielli, certo, perché è proprio dall’omonimo cesto che ne derivano il nome e la simbologia. La forma della corbula richiama infatti la fertilità e la prosperità: le qualità della donna generatrice di vita. Il cesto rappresenta la funzione femminile di contenere e mantenere la vita, di proteggere e nutrire.

In Sardegna le corbule erano parte irrinunciabile del corredo nuziale perché essenziali nella preparazione dei pani e utilizzate per misurare gli alimenti. La dote era composta di tre canestri e tre corbule, chiamate dalla più grande alla più piccola sa crobe manna, sa crobe e sa crobischedda.

Lavorate sapientemente e arricchite con decori diversi in base alla zona, le corbule venivano utilizzate per trasportare il pane e il grano ma avevano anche una funzione estetica. Venivano appese al muro a mò di quadrucci o esposte su mensole per arredare e conferire calore all’ambiente domestico (a Sinnai esistevano le “stanze del fieno,” locali interamente arredati di canestri e corbule di diverse dimensioni).

Realizzare una bella corbula era un orgoglio personale, ma se l’erba del vicino era più verde le donne non esitavano a rivolgersi ai corbulai, i venditori ambulanti di corbule che trasportavano una vasta gamma di modelli realizzati altrove. I corbulai poi, non erano i soli uomini ad avere a che fare con i cesti. Fino ai primi del ‘900 a Cagliari esistevano “is piccioccus de crobi”, ragazzini di strada che per guadagnarsi da vivere trasportavano sa spesa da un luogo all’altro utilizzando le corbule, che all'occorrenza diventavano sedie o giacigli per dormire.

Quanto ai materiali utilizzati per l'intreccio, nella Barbagia di Ollolai prevaleva l’asfodelo, nel Campidano Maggiore e nel Campidano di Cagliari la paglia di grano e il giunco, e nella Romangia la palma nana. Le strisce di asfodelo, a causa della durezza delle fibre, richiedevano uno sforzo di lavorazione incredibile. Venivano tagliate nel mese di giugno ed esposte al sole davanti casa per l’essiccazione, dopodiché si passava alla scelta delle tonalità da inserire in base al motivo della decorazione.

 

La corbula in asfodelo o giunco si sviluppava per cerchi concentrici a spirale secondo il metodo “a crescita continua”. Il sostegno era rappresentato dalla spirale rigida e le donne utilizzavano acqua e strumenti perforanti (anche ossa di pollame appuntite) per fermare di volta in volta i punti e riempire il cesto, ancorando il giro successivo al precedente.

Esistono grandi differenze fra le corbule di Ollolai e quelle dell’Oristanese. Nelle prime le decorazioni sono minimali, nelle seconde addirittura venivano inseriti dischi di stoffa broccata per coprire l’occhiello della spirale, e i decori spaziavano dai motivi geometrici a forme stilizzate di animali e piante.

È incredibile pensare che modelli delle stesse dimensioni e forme delle corbule erano presenti anche in epoche molto antiche. Una delle testimonianze viene da Villasor, dove è stato ritrovato un bronzetto nuragico (conservato nel Museo Archeologico di Cagliari) raffigurante una donna che trasporta un cesto con cordone a spirale. Altri bronzetti riproducono cesti con decorazioni a cordoni concentrici sovrapposti, che simulano la tessitura del giunco e dell’asfodelo: gli stessi materiali utilizzati fino al secolo scorso.

Le corbule attualmente in vendita si sono arricchite di decori anche non tradizionali, ma con l’avvento del turismo di massa la loro fattura (tranne alcune eccezioni) non è più artigianale, ma dozzinale e abbastanza grossolana. Per acquistare pezzi unici bisogna rivolgersi alle artiste/i che ancora intrecciano a mano, mentre per ammirare, basta recarsi nel Museo dell’intreccio a Castelsardo, che raccoglie splendide corbule, canestri, crivelli e setacci sardi e provenienti dall’intera area del Mediterraneo.


Sa Pillosa. Il pane che richiama il corpo di donna e la fedeltà

 

Attorno al pane ruota una vera e propria teologia dell'alimento.

Il pane sardo ha, così come la sua suggestiva tradizione orafa, una doppia funzione: quella legata all'immediato utilizzo e quella connessa alla veicolazione di precisi messaggi in seno alla comunità. Le dichiarazioni non verbali attribuite al dono di pani particolari erano legate all'avvicendamento dei periodi liturgici, ai sacramenti, alle feste patronali ma ve n'era uno che esulava dal contesto religioso. Questo era il pane della fedeltà.

 Il dono di alcuni pani era la notificazione di un codice tacito ma eloquente, e certo non di secondaria importanza.

Esso era l'auspicio dell'integrità del talamo.

A questo scopo la sposa portava in dono il pane chiamato Sa Pillosa, lo sposo restituiva Su Colovru.

 

Senza alcuno sforzo di immaginazione, la foggia dei pani offre un esplicito riferimento all'anatomia genitale, rispettivamente femminile e maschile, evocativa di protezione, prosperità e di un serio impegno di fedeltà. Oggi, fatto salvo il rispetto della tradizione che ne mitiga il movente originario, una simile esortazione tramite il dono vicendevole dei pani della fedeltà risulterebbe forse di dubbio gusto. In passato, quando il marito era costretto a trascorrere lunghi periodi fuori per l'impegno della transumanza, il monito pre matrimoniale alla fedeltà non doveva risultare del tutto superfluo.

Un'antica leggenda sarda narra che un uomo, ricco allevatore, avesse un figlio giunto ad età di matrimonio. Tante le fanciulle del paese comprensibilmente interessate a conquistare il giovane e contrarre un matrimonio che avrebbe significato agiatezza e sicuro prestigio sociale. Tante si facevano spavaldamente notare per la florida bellezza, altre puntavano su una, vera o presunta non si sa, devozione religiosa indice di grande serietà e affidabilità, chi era abile massaia, ma il ricco padre dello sposo scelse colei che gli presentò in dono Sa Pillosa, a garanzia di fedeltà eterna. La ragazza venne accolta in famiglia con tutti gli onori. In quel momento la sposina non aveva plasmato della semplice farina di grano con acqua ma aveva creato la sua idea valoriale di famiglia solida. L'essenziale per le radici sarde: la trasmissione del seme incontaminato.

 

Testimonianze sospese tra realtà e favola contribuiscono a ricostruire una dimensione in cui il terrore di veder leso l'onore non era un fatto privato, né esclusivamente maschile. Se una fedifraga Dalila sarda metteva a repentaglio il suo decoro tutta la dinastia avrebbe vissuto sotto l'ombra dell'incertezza, la paternità della prole sarebbe stata per sempre messa in discussione. Una macchia corrosiva e incontrovertibile che avrebbe potuto nutrire la disamistade di numerose generazioni. Certamente meno stigmatizzato era il tradimento maschile, almeno pubblicamente, le ripercussioni private legate al regolamento di conti potevano oscillare dallo sterminio delle greggi da parte della famiglia della sposa o alla "soluzione" estrema dell'omicidio.

Il messaggio silenzioso ma eloquente, materiale e simbolico, dei doni de Sa Pillosa e de Su Colovru erano dunque pacifico memento e solenne promessa di quieto vivere e impegno al progresso della dinastia.