"Architettura e luce mediata"     23 maggio 1991

Colloquio tra Gae Aulenti e Franco Raggi sulla luce in architettura, il neoliberty, i musei, il minimalismo, il teatro e le persiane.

 

Aulenti. Di cosa dovremmo parlare?

Raggi. Potremmo parlare di luce, di cultura della luce, di luce e architettura di luce nell'architettura; tu lavori come designer e come architetto che rapporto c'è tra le tue lampade e le tue architetture?

 

A. mah ...io non ho quasi mai disegnato lampade da sole , le mie lampade sono una conseguenza, io ho sempre disegnato lampade per luoghi specifici , alcune poi sono entrate in produzione...

R. non hai mai disegnato senza pensare ad un luogo?

 

A. poco, ho disegnato un sistema per uffici ...i "Sistemi Tre" ,ma tu non la ricorderai, in genere le mie lampade sono legate a situazioni precise, a spazi e tempi di progetti d'architettura....

R. allora sei una designer un po' casuale, un po' occasionale rispetto agli specialisti della luce, ai tecnologi dell'illuminazione....

 

A. ...sì, anche se però c'è sempre alla base una riflessione sull'uso che comporta una riflessione tecnica, come per questa qui...

R. quale?

 

A. questa qui sul tavolo... si chiama... oddio non mi ricordo.... si chiama Pietra, è una luce che io considero una luce da ufficio, ... non è una luce per lavorare, ma una luce per "parlare" intorno ad un tavolo, perché non sempre si lavora leggendo o scrivendo, si lavora molto anche parlando e allora ho pensato a una luce da ufficio per illuminare discretamente un colloquio...

R. pensi più partendo da situazioni che da prestazioni tecniche o illuminotecniche?

 

A. io penso che noi lavoriamo con tre cose: gli spazi, la luce sopratutto diurna, ma anche notturna, e l'architettura; poi c'è la luce come disegno, come strumento di puntualizzazione architettonica e la luce come fatto funzionale integrato come nei musei, dove fa parte della progettazione, non solo del desiderio, ma della necessità.

R. Tra la luce come necessità tecnica e la luce come possibilità espressiva cosa scegli?

 

A. Nessuna delle due. Io penso all'architettura come possibilità tecnica di filtrare la luce, di attenuarla. In fondo il problema è proprio quello non tanto di come fare luce, 2 che quella diurna appunto c'è, ma di come fare ombra... per esempio nel padiglione italiano che si sta costruendo per l'Expo di Siviglia. Il problema è stato quello di proteggersi da questo grande calore e luce che c'è appunto a Siviglia. Allora l'edificio è fatto da due edifici, uno è l'involucro, un recinto, un perimetro di finestre costruito che appoggia sull'acqua e che circonda e contiene un secondo edificio. Il primo è come una pelle che lascia passare la luce, la lascia filtrare e riflettere sull'acqua ed entrare nel secondo, che è il padiglione vero e proprio.

R. Quindi tu pensi alla luce come una variabile indipendente dentro la scatola dell'architettura, come un elemento variabile, quasi casuale.

 

A. apparentemente casuale, è come predisporre un arco vasto ma limitato alla casualità, alla variabilità del mondo esterno. Come preparare dei percorsi obbligati delle trappole e attendere gli eventi.

R. Ma per esempio nei musei l'architettura della luce è un fatto fondamentale, perché il museo è in fondo una macchina per catturare la luce per uno scopo preciso, quello di far vedere un quadro. Ora questa trappola può essere pensata per prendere sempre la stessa luce o per prenderne tante. Cosa pensi tu dell'idea comune che un quadro debba essere visto in una luce stabile e definita e non debba vivere in un mondo di luci variabili, che è poi il mondo nel quale è stato pensato e concepito?

 

A. ti faccio un esempio. Noi per il Museo d'Orsay che è un museo prevalentemente di impressionisti abbiamo discusso e deciso con i curatori che fosse ammissibile introdurre una variabilità luminosa legata alla metereologia; questo perché gli impressionisti sono in gran parte dei pittori "open air" all'aria aperta, pittori di paesaggi. Così i quadri cambiano a seconda di come è il cielo di Parigi che è un cielo di nuvole in movimento, di luci abbaglianti. Abbiamo cioè privilegiato un progetto di luce "naturale", poi però, per il resto del museo, è stato richiesto che la luce artificiale "coincidesse" con quella naturale...

R. cosa vuoi dire con "coincidesse"?

 

A. coincidesse come provenienza e come qualità. E' stata una richiesta precisa dei conservatori. Allora abbiamo lavorato più su superfici luminose che su punti luminosi; e naturalmente su luci riflesse, diffuse, indirette che si possano miscelare con la luce naturale e la sua variabilità, e comunque luci la cui fonte fosse nascosta come il sole che in fondo dentro una architettura non lo vediamo quasi mai.

R. quindi accetti l'idea che la luce nei musei non debba essere uno standard quantitativo?

 

A. che non debba essere solo quello; sappiamo che ci sono queste normative internazionali per i musei sui lux sulle quantità di luce eccetera e sappiamo che valgono come media, voglio dire che è giusto lasciare dei margini di interpretazione e di variabilità specialmente per la pittura; mentre ci sono cose dove lo standard luminoso ha un senso diverso, come per i disegni che vanno sempre visti al buio, isolati, come pensieri solitari, appunti grafici senza contesto spaziale; allora mi va bene la sola luce artificiale, controllatissima... 3

R. Che differenza c'è nel progettare la luce per un museo e per una mostra.

 

A. non so...non mi pare che ce ne sia...

R. Eppure per le mostre dei vasi di Eufronio a Parigi, dei Fenici o dei Celti a Palazzo Grassi hai usato la luce anche come fatto scenografico...le colonne di luce sui vasi, il bosco celtico con le lenti luminose, l'uso del buio...

 

A. Forse la differenza è che le mostre offrono e richiedono sempre delle chiavi di lettura sintetiche per grandi concentrazioni di opere, sono come dei teatri temporanei nei quali l'allestimento gioca un ruolo rivelatore. Per esempio quella dei Fenici era una mostra in luce piena, solare, una specie di metafora della condizione mediterranea fatta di luci e ombre nette, compatibili con i materiali esposti che erano terrecotte, vetri, metalli, marmi. Per la seconda mostra archeologica sui Celti invece è stato tutto tenuto abbastanza al buio più per una idea generale di allestimento basata sul colore verde, sull'idea della foresta e delle luci diffuse del nord, ma sono sempre gli oggetti che guidano l'dea e ammettono abbagliamenti o penombre. Mentre invece la mostra dei quadri di Andy Warhol sempre a Palazzo Grassi, aveva i suoi 200 lux, le protezioni, le tende, i filtri, sia di giorno che di sera.

R. Quindi riconosci che ci si possa sottrarre alla dittatura dello standard; per esempio, a parte il problema dei musei, cosa pensi della standardizzazione luminosa nei luoghi di lavoro nei luoghi pubblici...?

 

A. Io dico che tutto dipende dalla qualità dell' architettura; l'architettura è lo strumento primario per la manipolazione della luce, poi la luce artificiale collabora e diventa primaria di notte. Ecco io non concepisco la mancanza di sensibilità per questa alternanza tra giorno e notte. L'architettura e la luce devono essere pensati per questa successione, trovo angosciosi quei paesaggi urbani notturni di architetture morte, palazzi per uffici con piani deserti illuminati....come a Houston. Questa uniformità è in realtà una doppia assenza, assenza di progetto architettonico e di progetto luminoso. Alla fine hai delle architetture che sono come delle grosse lampade da terra, dei totem, dei falli luminosi nelle quali non c'è mediazione tra luce e materia.

R. però non hai risposto alla mia questione sullo standard nei luoghi di lavoro.

 

A. Gli standards servono solo per permettere una dialettica.

R. A proposito di architetture che sembrano lampade tu piuttosto hai fatto delle lampade che sembrano architetture.

 

A. a quali pensi?

R. ad una che ho visto da un antiquario di Palau in Sardegna, il "Rimorchiatore", mi sono anche chiesto: chissà come si sentirebbe la Gae a ritrovarsi una sua lampada già nel modernariato; bè comunque era lì e ho pensato che l'ossessione dell'architettura e della complessità sia una tua costante anche nel design. 4

 

A. Io sono sempre un po' sperimentale, mi piace provare forme e materiali e relazioni nuove. Il rimorchiatore è una esercitazione sulla morte dell'abat-jour. Mi dicevo l'abat-jour non si può più fare, cosa facciamo per nascondere la luce dentro qualcosa. Così ho messo intorno a tre lampadine diverse un portafiori un portacenere un schermo e tutto sopra una base. .

R. Sì però questo lo si può fare in tanti modi, tu lo fai con forme che girano in modo molto espressivo attorno alla funzione.

 

A. Allora devo ammettere e premettere che io non ho mai disegnato una lampada tecnica, quando la funzione luminosa diventa così precisa, così tecnica così univoca a me non viene in mente niente; disegno solo in relazione ad altre cose. Io poi ho molta attitudine a disegnare, a provare forme espressive.

R. qual'è la prima lampada che hai disegnato?

 

A. La "Giova" che è un vaso su una lampada, una pianta sopra una luce, e poi la "Pipistrello" .

R. che mi sembrano appartenere a due mondi diversi.

 

A. perché?

R. La prima è una sovrapposizione di geometrie, tre bolle tutte trasparenti, quasi purista, la Pipistrello è invece quasi espressionista, molto disegnata un po' neoliberty....

 

A. neoliberty...mmh, non direi.

R. Dico neoliberty come rifiuto di linearità e di geometrie fredde, in fondo è una lampada calda con le ali nere un pò animalesche...ecco volevo sapere per te cosa è stato il neoliberty a Milano.

 

A. non una questione stilistica e formale, ma una adesione ad un mondo di radici più lontane che saltassero il razionalismo dell'anteguerra. Io ho fatto negli anni sessanta una villa a San Siro che hanno classificato come neoliberty; era una casa di città pensata come una casa di campagna, con i cavalli sotto invece dell'automobile in garage e in realtà l'ispirazione è più a Berlage e alla scuola di Amsterdam in opposizione alla scuola del razionalismo di Francoforte.

R. Ma perché questa opposizione e perché nel primo dopoguerra.

 

A. Tra l'anteguerra e il dopoguerra c'è una svolta radicale. Io ho vissuto direttamente solo il dopoguerra, eppure sentivo, si sentiva, che la cultura era cambiata, erano cambiati i riferimenti, e non si sarebbe più potuto pensare per grandi utopie come il razionalismo aveva proposto e tentato di fare. Non so se ricordi la famosa "Cucina di Francoforte" degli anni 30/40, era un luogo domestico di matematiche certezze di movimenti esatti e calibrati di dimensioni certe, insomma era una concezione del mondo sotto specie domestica. Nel dopoguerra tutto era cambiato, riferimenti, valori, politica, e allora una nuova cultura architettonica doveva radicarsi altrove superare il purismo intollerante del razionalismo; è stato come un ripensamento "per forza", 5 avevamo a che fare con Rogers, Albini, gente che aveva pagato duramente per le proprie idee, per le proprie "resistenze", gente con una fortissima moralità che di fronte alla catastrofe materiale e culturale della guerra aveva un insegnamento semplice da dare: "...ristudia da capo per poter capire."

R. Mi chiedo però come mai da un punto di vista linguistico questa rottura e il successivo recupero siano stati visti e pensati non tanto come un recupero in avanti, come sviluppo della vitalità degli anni '50, ma come uno sguardo all'indietro, un recupero di qualità quasi borghesi ...

 

A. Non è così. E' stato un po', come dire, una presa di coscienza che l'utopia dell'oggetto archetipo, che va bene per tutti, si era proprio sgretolata, sfaldata, rotta e allora su Casabella si facevano degli studi rifondativi su personalità come Boito, Adolf Loos, Berlage, che erano alla sorgente, alla radice della modernità. Quindi non fu uno sguardo nostalgico al passato ma un tentativo di ristabilire una continuità tra passato e futuro, interrotta dalla catastrofe della guerra. La storia aveva creata una tabula rasa bisognava ricollegare fili interrotti, scavare in profondità questo è stato il nostro dopoguerra e non so bene perché lo abbiano chiamato Neoliberty.

R. parlando di design di lampade hai detto prima che è morto "l'abat-jour"...che cosa vuoi dire che non si può fare, non serve più...?

 

A. No, non è morto, l'abat-jour si può fare bisogna vedere come, perché il fatto è che con il Movimento moderno le luci sono diventate luci più dirette, piene, chiare, non mediate...direi quasi luci tecniche che non sprecano un lux; invece quello che si chiede e si chiedeva all'abat-jour è una luce corretta, mediata che vuol dire proteggerti dalla luce e non tanto moltiplicarla verso una direzione precisa con una funzione precisa. L'unica lampada moderna che si sia posta questo problema è stata quella di Noguchi, quella di carta, quella Giapponese.

R. Pensi che sia stato per caso?

 

A. No perché questa attitudine a mediare e filtrare è nella lunga tradizione della architettura giapponese che è fatta di schermi di carta diffusori, di pareti filtro, di luoghi come il portico che servono a mediare progressivamente e armoniosamente tra esterno ed interno tra luce ed ombra. La qualità degli spazi orientali è spesso fatta di penombre e di assenze di luce, di oscurità senza dimensione, di superfici e materiali primari; le loro lampade discendono e sono funzionali a questo discorso architettonico dove ha senso la candela, la lanterna, il fuoco e non il fascio luminoso diretto.

R. vuoi dire che spesso è più utile vedere poco per...

 

A. per indovinare molto, per immaginare, se non vedi i limiti di una stanza in penombra la puoi immaginare e sentire molto più grande.

R. come ti senti rispetto all'evoluzione tecnologica nel campo illuminotecnico, la miniaturizzazione dei corpi, le basse tensioni, i materiali plastici elettroconduttivi....lo senti come un avanzamento che ti può dare stimoli innovativi? 6

 

A. Non mi interessa tanto...voglio dire che l'avanzamento tecnologico ha una sua necessità fondamentale ma non credo che una attenzione preminente a questo mondo faccia automaticamente nascere forme nuove. Sì è vero che con le alogene le dicroiche e la bassa tensione è esploso un firmamento di punti luminosi, filamenti, strutture evanescenti, che sono un nuovo strumento espressivo, però io li sento più come un segno grafico nello spazio che come un segno architettonico. E poi credo che il vero protagonista involontario di questo "avanzamento" tecnologico sia il dimmer...

R. il dimmer?

 

A. sì perché con le nuove tecnologie è tale la quantità di luce che può uscire da queste microlampadine che alla fine è sempre troppa a allora giù coi dimmer per ridurla perché abbaglia è troppo sparata, si vedono le rughe in faccia, non aiuta la concentrazione... e invece il progetto luminoso è un progetto di mediazione, di sottrazione.

R. Quindi vorresti fare lampade che fanno poca luce?

 

A. vorrei fare delle lampade che anche se ne fanno un po' meno vadano bene lo stesso.

R. come ti muovi tra i due estremi contemporanei del design minimale e di quello espressivo estroverso?

 

A. dunque, io cose minimali è molto difficile che ne faccia perché io non ricerco il minimalismo ma semmai la semplicità che è una cosa molto differente. Voglio dire che non è che con delle forme espressive tu non riesca a raggiungere la semplicità, anzi io credo che questa sia la cosa più difficile e più bella da raggiungere. Il minimalismo non mi interessa e non mi appartiene perchè io ritengo che un oggetto debba parlare forte di un linguaggio possibile per raggiungere il maggior numero di persone...anche se poi ne raggiunge sempre la metà.

R. però il tuo tavolo di vetro con le ruote è minimale , è quasi un azzeramento di linguaggio, come lo spieghi?

 

A. Non lo spiego, è un'idea che quasi non ho cercato e stata l'intuizione di un giorno che in fabbrica in Fontana Arte ho visto trasportare le lastre di vetro su dei piani di legno con ruote industriali, e ho pensato che si poteva togliere il legno e c'era un tavolo già fatto, è stato quasi obbligatorio, direi un atto di "nondisegno" non un disegno minimale voluto. Infatti non ho mai fatto più niente di simile; perché ho una attitudine più sperimentale legata alle cose, al vedere cosa succede lavorando su materiali diversi , sia vecchi che nuovi... la mia caratteristica è quella di disegnare molto, forse troppo, mentre il minimalismo è concettuale lavora più sulle idee quasi che la materia sia un accidente...

R. Che differenza trovi a lavorare per la scena o per l'architettura, ritieni che ci siano vincoli e metodi diversi ? 

 

A. Non c'è perché il vincolo in architettura è un contesto fisico un luogo una città uno spazio, in teatro il vincolo è il testo letterario e la sala stessa, uno mentale e uno fisico.

R. Se la sala teatrale è un vincolo qual'è quella dove hai lavorato meglio?

 

A. La Scala perché è un teatro "classico" nel senso che il rapporto tra scena e sala è canonico non c'è confusione, e allora é più facile lavorare per opposizione, visto che sempre il teatro nasce per opposizione, diversità, straniamento tra il pubblico e la scena. Una sala moderna non mi da uno statuto così forte come una classica e allora il contrasto la opposizione e la leggibilità della scena risultano meno evidenti... Poi naturalmente una differenza c'è a lavorare in architettura e in teatro, che il teatro è il luogo del buio, e la luce è un elemento evocativo, atmosferico, di simulazione che nell'architettura manca. L'architettura non simula e non rimanda che a se stessa, è durevole, il teatro è effimero.

R. e la casa?

 

A. Cosa vuoi sapere?

R. Nella casa nell'ambiente domestico come entra la nuova tecnologia, l'evoluzione illuminotecnica? in fondo la vera rivoluzione nel design l'hanno fatta le lampadine.

 

A. Non saprei, io continuo a pensare che le nuove lampadine hanno anche deformato il discorso luminoso nelle case trasformandole in uno spazio con tanti punti di luce, che mi ricorda un po' le processioni, le madonne; tante luci diverse come se per ogni funzione ci debba essere la lampadina, mentre poi sappiamo che una stessa luce cambia a seconda di quello che gli mettiamo attorno. Per esempio io ho sempre odiato quei faretti tecnici americani direzionali, che illuminano per punti invece di diffondere; appunto il contrario di quello che fa l'architettura con la luce. Io sono contro l'abbagliamento e tanto più nella vita quotidiana mi sembra che certe nuove luci hanno trasformato nei salotti la conversazione in un interrogatorio.

R. E l'informatica/telematica domestica cosa ti suggeriscono?

 

A. E' ancora un problema di misura come nell'automazione domestica io non ritengo che la tecnologia debba diventare un elemento espressivo invadente e banale; non credo che una architettura debba far vedere il suo sistema nervoso i suoi muscoli, che una casa debba essere piena di saponette agli infrarossi, e tubi dell'aria condizionata....

R. E gli edifici intelligenti?

 

A. Gli edifici non sono intelligenti, sono progettati intelligentemente. C'è un po' di trionfalismo intorno a questi progetti di sistemi automatizzati. Quando studiavamo D'Orsay ci dissero "...guardate che a Londra hanno realizzato un soffitto diffusore intelligente che segue le variazioni luminose del cielo...". Allora siamo andati a vedere e ci siamo accorti che la velocità di variazione era più veloce della capacità di reazione; c'erano queste povere tendine che continuavano ad inseguire i cambiamenti del cielo, e 8 poverine sembravano impazzite, ...avanti e indietro e davano il senso di un affanno dell'intero sistema, era un po' angosciante. Il problema è che si introduce una complessità sproporzionata al problema da risolvere. In fondo si tratta di diffondere la luce su dei valori medi accettabili non di mantenere uno standard a tutti i costi; non so mi sembra che ci siano ben altre cose da cui difenderci nelle quali si potrebbe applicare tecnologia sofisticata. L'architettura deve essere semplice e non richiedere troppa manutenzione.

R. Insomma non bisogna dimenticare la vecchia tapparella?

 

A. Meglio ancora la persiana, è più semplice, e ricordarsi che di giorno una finestra è una bellissima lampada.