Su Ballu Tundu

La donna, il sacro, il sangue

All'epoca delle piramidi di Cheope in Sardegna si danzava già su Ballu tundu.

La prima testimonianza del ballo sardo si deduce dal rinvenimento del frammento di una scodella carenata in cui è rappresentata una scena di danza in cui le ballerine sono quattro donne.

La documentazione della danza femminile di 2500 anni fa è oggi custodita a Sassari presso il Museo Sanna, nella sala dedicata al Monte d'Accoddi. Quella che invece è considerata attendibile testimonianza della pratica de su ballu tundu, durante l'ultima fase dell'epoca giudicale, è il bellissimo architrave del gioiello romanico del Guilcer, la chiesa di San Pietro di Zuri.

 

Era attraverso questo ballo che venivano scanditi i ritmi delle comunità arcaiche: matrimoni, battesimi, feste campestri, solennità e festa del Patrono, vendemmie e canevale. Durante il '700 - età in cui sbocciò il mito romantico del viaggio in Sardegna da parte dei più grandi intellettuali europei e certo italiani - un aspetto che colpì numerosi viaggiatori fu l'importanza sociale attribuita al ballo. Era eseguito con compostezza del corpo e solennità nel portamento, tanto da evidenziare come degno di nota il fenomeno de sa tzeracchía, cioè l'atto di garantire la partecipazione certa di un suonatore pagando anche con anticipo di un anno.

 

«Niente eguaglia la gravità con cui i sardi fanno questo ballo, si direbbe spesso che non ci prendono gusto alcuno, invece è il contrario perché in tutti i villaggi del campidano di Cagliari i giovani si quotavano per pagare un suonatore della domenica», racconta Alberto Lamarmora.

Molti tra i viaggiatori letterati sono concordi nell'osservare una costante de Su ballu tundu: le donne mantengono il capo chino fino al termine della danza. Gli stessi intellettuali attribuivano questa consuetudine alla comune origine cultuale de su ballu tundu con le solenni danze rituali eseguite con rigore ieratico dalle sacerdotesse sarde della dea Diana. A conferma di questa ipotesi è sufficiente ricordare la testimonianza del 1550 di Sigismondo Arquer che nel pamphlet Sardiniae brevis historia et descriptio si documenta che i balli considerati riti sacri si svolgessero davanti all'altare. Si trattava di un tentativo ideale di traslazione del rituale pagano su quello cristiano, così come rappresentato dal rinvenimento nei pressi di Tharros, di un cippo in arenaria intorno al quale danzano tre donne nude.

La danza delle tre fanciulle rimanda con evidenza alla sacralità propiziatoria della fertilità. Sul finire del '700 il ballo in Chiesa sarà definitivamente proibito e permesso solo sul sagrato, ben presto però prenderà la via della piazza. Abbandonerà dunque la nobile funzione sacra per abbracciare l'espressione festosa del solo lato folcloristico. L'epurazione delle manifestazioni della religiosità pagana dai luoghi di culto non fu graduale, men che meno pacifica. L'espulsione del ballo avvenne attraverso l'intervento continuo e integrato di autorità ecclesiastiche e civili. Durante l'esecuzione de ballu tundu, assimilato dai viaggiatori stranieri alla grazia elegante del Sirtaki greco, non era consentito trasgredire le regole. Chi lo faceva pagava con la vita.

 

Gli informatori di ogni paese sono concordi nell'affermare che queste norme venissero rigorosamente rispettate. Lo conferma anche la studiosa Dolores Turchi: «Era d'obbligo entrare sempre alla sinistra di un uomo o alla destra di una donna, in modo da non separare mai la donna che il ballerino teneva alla sua destra, perché era quella che aveva scelto entrando nel cerchio. Tale separazione era considerata una grande offesa e si pagava col sangue. Questa regola era comune a tutti i paesi della Sardegna» 

Chi dava dunque inizio alle danze? Tutta l'isola sembra concorde nella memoria della cultura musicale: era la donna ad aprire le danze. Il privilegio femminile di cominciare il ballo è testimoniato con certezza nel 1600 dal sinistro episodio del santuario campestre di Nostra Signora de Sos Desamparados (degli Abbandonati), sulla cima del monte Manasuddas di Oliena.

Da consuetudine giuridica i banditi all'interno delle chiese godevano di una certa immunità, non avevano dunque alcuna riserva nel partecipare a festeggiamenti che si protraevano fino a tarda notte. Un brigante, secondo le cronache dell'epoca «interruppe la danza che le donne avevano appena cominciato», afferrò la mano di una ragazza che si ritrasse e rifiutò l'invito al ballo. Ne derivò un triste episodio di vendetta. Nei casi più pacifici la donna che rifiutava l'invito, generando imbarazzo nel gruppo festoso, doveva evitare di ballare per il resto della serata, per dissimulare il senso di insofferenza verso quel cavaliere in particolare.

 

Gli equilibri connessi a faccende d'onore, già delicati all'interno della comunità, erano particolarmente esposti in questi frangenti in cui - ieri come oggi - il rifiuto di una ragazza suonava come l'onore leso ad un intero clan. Anche Grazia Deledda, in Canne al vento, riporta significative informazioni sull'usanza del ballo sardo.

Ciò che ad un occhio esterno può sembrare il suggestivo accordarsi di un rito tribale, allo sguardo di un indigeno è nient'altro che dolce aria familiare dai mille ricordi. Ma la suggestione ipnotica è fatta salva.