Banditesse

Storie di donne sarde fuorilegge.



Donna Lucia Delitala

 

( Nulvi - Settecento)


La misteriosa e incatturabile banditessa di Nulvi

Indipendente dell'autorità maschile, guerriera e ribelle, dipinta più simile a un uomo che a una donna. È la prima della triade leggendaria del banditismo sardo al femminile, una delle donne più controverse e affascinanti della storia sarda.

«Non si è voluta sposare per non dipendere da un marito, secondo quanto lei stessa afferma. Ha due mustacchi da granatiere e usa le armi e il cavallo come un gendarme» (Il vicerè Carlo Amedeo Battista, suo nemico, la descrive così in una lettera al re Carlo Emanuele III).

A capo di un'"esercito" personale imperversò nel nord Sardegna con stragi e razzie.

Ne trovarono il corpo arso nell'incendio di una sua casa, abbracciato stretto a quello di un uomo del quale non si seppe mai niente.

 

 


A Nulvi, in provincia di Sassari, una via è dedicata alla nobile dinastia Delitala e – sull’antico palazzo di famiglia- è visibile una targa in ricordo di Francesco, padre di Lucia, una delle protagoniste del banditismo sardo “al femminile”.

I documenti di battesimo presentano Lucia come figlia legittima del nobile don Francesco Delitala Tedde e di donna Jana (Giovanna) Maria Tedde, ma non esistono testimonianze certe sulla sua morte né sulla sua tomba.

Secondo alcune fonti sarebbe morta fra il 1755 e il 1767, secondo altre nel 1760; non ci sono lapidi né ricordi nel cimitero di Nulvi e nella chiesa di sant’Antonio Abate, divenuta nel tempo una sorta di tomba di famiglia. Qualcuno avanza l’ipotesi di un assassinio avvenuto a Chiaramonti dove si sarebbe nascosta e sarebbe stata sorpresa da un incendio nel sonno, mentre era abbracciata nel letto ad un uomo. 

La famiglia aveva ottenuto il cavalierato nel 1636 e la nobiltà nel 1641; si sa che erano ricchissimi grazie ad attività non sempre lecite, come il contrabbando e il brigantaggio; alcuni membri parteciparono ai moti del 1720 contro i Savoia, mentre altri si trasferirono stabilmente in Corsica. La casata si estinse nel corso del XX secolo.

Lucia ebbe un’infanzia protetta, in un ambiente affettuoso e sereno, mentre il paese natale era insanguinato dalla rivalità fra i Tedde e i Delitala, divenuta una vera e propria faida.

Si racconta che fin da bambina avesse un carattere ribelle e usasse spesso come arma le sue piccole forbici da ricamo contro le ragazze della parte avversa, ma soprattutto contro le donne che parteggiavano per i Savoia. Con le forbicine, usate in chiesa, a un ballo, durante una cerimonia pubblica, si potevano tagliare gli abiti, i nastri, i pizzi delle avversarie causando pochi danni ma grande imbarazzo per le malcapitate cui magari cadeva la gonna per strada. 

Pare che fosse solita indossare una maschera quando voleva nascondere la sua identità e, ormai adulta, utilizzava lo schioppo ad arcione, con innesco a pietra focaia, oppure lo stocco, più leggero della spada, mentre percorreva la Gallura con il suo amato cavallo Tronu. Per contrastare il banditismo il Viceré aveva inventato metodi violenti e fantasiosi, anche se poco efficaci: aveva infatti creato un corpo militare itinerante, a cui si univano giudici e una forca sempre pronta per mettere in atto spietate condanne; aveva poi utilizzato l’”importazione” di continentali per popolare vaste aree totalmente disabitate, in modo da renderle meglio controllabili e meno selvagge. Ebbe l’idea di sopprimere l’Università di Sassari e cercò in ogni modo di cancellare, negli abiti, nelle usanze e persino nell’architettura, le tradizioni spagnole radicate in quattro secoli di dominazione. Certo è che in Sardegna, nel Settecento, il governo piemontese appariva altrettanto straniero e ancora più avido e i banditi molto spesso si ammantavano di un’aura da liberatori e difensori dei diritti.

Lucia, incoraggiata dal padre, fece propria questa battaglia e cominciò a servirsi di uomini armati al suo servizio per assalire le truppe sabaude, specie quando si trovavano isolate e in zone a loro poco familiari.

Un fatto di particolare rilievo fu l’assalto ai soldati del distaccamento di Ozieri che finì in una vera e propria strage. Il Vicerè, che inventò un altro provvedimento curioso, ovvero l’obbligo per gli uomini di non portare la barba, arrestò Francesco Delitala e, prima di procedere contro Lucia, la invitò a Cagliari, nel suo palazzo. Dopo un breve e provvisorio arresto, la donna fu libera a condizione che non proseguisse le sue imprese contro il governo. Per Lucia questa fu quasi una provocazione: cominciò davvero a fare la vita della “bandita”, con un certo agio però, perché veniva ospitata, grazie alla sua casata nobilissima, in palazzi signorili ben protetti.

Un altro episodio che si tramanda è l’assalto (a Montesanto) a una compagnia di dragoni che portavano con sé prigionieri e denaro. Questo massacro fece tanto scalpore che addirittura il gesuita padre Vassallo riunì a Nulvi i capi delle due fazioni, Giovanni Tedde e Antonio Delitala, per stipulare una pace duratura almeno fra di loro. Da allora Lucia maturò sempre più la convinzione di combattere per una giusta causa, da patriota contro gli invasori, ma il commissario governativo fece arrestare molti suoi seguaci che finirono impiccati o torturati con la lingua strappata. Anche l’amico Fais rischiò di essere catturato in un epico scontro che vide cadere al suolo duecento uomini fra soldati e banditi; Lucia, in modo avventuroso e romanzesco, riuscì ad arrivare in tempo con un manipolo di fedelissimi e a portare al sicuro Fais, con Chiara e Mattea. Fais però non rimase a lungo nascosto e si gettò di nuovo nelle imprese pensando di essere sempre protetto dai pastori, su montagne impenetrabili. Fu invece intercettato e sarebbe stato di nuovo arrestato se non fosse stato ancora una volta per l’aiuto di Lucia che ‒ si racconta ‒ arrivò sul suo cavallo Tronu indossando un mantello rosso, la maschera sul volto e l’elmo di cuoio. Fais con la famiglia fu fatto fuggire in Corsica, dove rimase quindici anni.

Al ritorno era convinto che il suo passato fosse stato dimenticato e riprese con i sequestri, ma fu catturato e impiccato a Sassari nel 1774; il suo corpo fu smembrato e disperso perché non ne rimanesse alcuna memoria.

Lucia nel frattempo non si sa se fosse ancora in vita, vista la mancanza di un atto di morte; certo è che non finì di stupire con il suo testamento lasciando diecimila lire in favore del collegio dei Gesuiti di Ozieri. Quando l’ordine fu soppresso, il parroco di Chiaramonti fece buon uso del denaro tanto che molti anni dopo poté essere costruita una nuova parrocchiale. Altri fondi furono generosamente lasciati alla Chiesa, a testimonianza di una devozione certo molto particolare in una donna spietata e senza paura, il cui nome è divenuto leggendario in Sardegna.


Maria Antonia Serra-Sanna

 

( Nùoro - Ottocento)


"Sa reina" e il suo potere di morte

Detta  Sa reina ("La regina") per il potere di morte e malefatte esercitato assieme ai fratelli latitanti, Elias e Giacomo. Nel 1889, uccisi i fratelli dai carabinieri nella battaglia di Morgogliai, arrestata lei, sequestrati i beni di famiglia, Sa reina è condannata a 20 anni di carcere. Recita la sentenza: «Triste figura di donna dal cuore perverso quanto i suoi fratelli, crudele con le vittime, eccitatrice e consigliera con ogni modo possibile dei banditi».


Nel corso di Nuoro, una sera, il tenente ebbe la fortuna di veder passare la vera signora di Nùoro, Sa Reina, la Regina.

Sorella dei due banditi Serra-Sanna, aveva contribuito, assieme al padre, alla trasformazione della famiglia da modesti pastori a ricchi proprietari di case, di terreni e di quattrocento capi di bestiame.

Al suo passaggio tutti si davano di gomito. I più s’inchinavano. Maria Antonia incedeva altera, le forme robuste nascoste dal ricco costume smagliante di ori e di lini rosso-sangue di porpora. Il viso eret­to, di una ardita bellezza, era come abbrunito dal nero profondo degli occhi. Una figura mediterranea, araba, forse, o profondamente orientale.

Il giovane tenente le piantò gli occhi addosso e la seguì, senza essere stato degnato della minima attenzione, finché la donna scomparve in fondo alla via dividendo in due la piccola folla della passeggiala serale.

Tutti dicevano che fosse lei la fosca ispiratrice delle sanguinose imprese dei fratelli: una creatura che poteva e non poteva essere donna o uomo in carne e ossa ma era, più semplicemente, «un accidente mandato da Dio sulla terra per dannazione del genere umano».

Raccontavano che in brache e mastruca (la giacca di pelle di pecora senza maniche dei pastori), barba finta e fucile in spalla percorresse ogni giorno chilometri e chilometri di brughiera, boschi e montagne per portare munizioni, cibo e notizie ai fratelli latitanti. Non si era mai data alla macchia proprio per mantenere uno stretto legarne tra i fratelli e il paese, che obbediva a ogni sua volontà. Una sua parola apriva le porte delle case, dei negozi, degli ovili. Alla sua presenza non c’erano borsa e cassetto che rimanessero chiusi. Se poi qualcuno osava rivolgerle anche la pur minima lamentela, lei rispondeva a voce bassa ma sicura:

“Parle­rò con Elias».

Bastava il solo nome di quest’uomo, il più feroce del fratelli, per far morire in gola a ricchi o poveri lamentele e richieste.

Appoggiata da uomini influenti come preti, sindaci, deputati, ogni sua volontà rimbalzava immediatamente a Sassari, dove c’era qualcuno che non poteva dire di no. 

La notte fra il 14 e il 15 maggio del 1899 la città di Nuoro venne divisa in sette grandi rioni.

Soldati, carabinieri e agenti di polizia, agli ordini del capitano Petella, vennero distribuiti in sette gruppi. Nei posti strate­gici vennero ammucchiate grandi quantità di manette, catene, corde. Tutto preparato in assoluto silenzio e secondo un preciso progetto.

Tutto il Nuorese fu coinvolto nell’operazione senza che nessun latitante sospettasse niente.

In città, dopo la mezzanotte energiche pedate e calci di moschetto scuotono la porta di “zio” Peppe, padre dei Serra-Sanna.

Il vecchio, saputo chi sono gli ospiti, si rifiuta di aprire. Si arrende solo quando gli uomini della legge stanno per buttargli giù la porta. Stupito che si possa osare tanto contro Giuseppe Serra-Sanna, protesta gridando come un forsennato contro quel manipolo di gente armata che gli mette la casa sottosopra alla ricerca dei due figli lontani nella foresta e della figlia che dorme in una cameretta in cima a una scaletta di legno. Alla luce dì una candela, la donna è costretta ad alzarsi: gli agenti che hanno fatto irruzione si voltano dall’altra parte per darle modo di vestirsi. Non è più la donna altera e ossequiata da tutti che il tenente aveva visto passare.

Una donna piena di rab­bia che riesce ancora a mascherare il suo terrore con uno sguardo di orgoglio ferito.

Sa Reina, scrive il Tenente che aspetta fuori dalla stanza della donna, quasi per un residuo di antica cavalleria, «ha corrugate le sopracciglia corvine in una sola sbarra nera, saettando di sotto in su. Ansietà, sospetto, orgoglio, rabbia impotente, c’era un po’ di tutto in quell’occhiata».

Prima di uscire dalla sua camera, con già addosso gonnelle e giubbetto scarlatto, getta uno sguardo di sfuggita su un cassone in un angolo. A una perquisizione immediata risulterà pieno di gioielli sardi di ogni tipo, pendenti, fermagli in filigrana d’oro e altre civetterie: fronzoli preziosi dell’ornamento di una donna ricca e nel fiore degli anni. Ma nel cassone c’è anche un potente cannocchiale, una scatola di polvere da schioppo di marca inglese, documenti e il famoso “indirizzo del re” che tutti i banditi sardi tenevano in ricordo di quando, durante la visita del re in Sardegna, il mese prima, avevano promesso di costituirsi in massa purché la condanna venisse irrogata loro direttamente dal sovrano.

Se poi nella sua cassapanca trovavano ospitalità tanto i gioielli che gli ordigni di morte, non c’è da stupirsi:

la storia e piena di regine belle e sanguinarie.

Incatenati, la figlia e il padre che non riusciva a capacitarsi come a un uomo di settantacinque anni e del suo nome potessero essere legate le mani, parecchie famiglie si svegliarono, uscendo mute sulle strade. Durante l’arresto di altri caporioni si assiste a scene isteriche; congiunti che cercano d’impedirne la cattura, richieste ai carabinieri di seguire i parenti in carcere.

La ”giustizia” li porta tutti con sé, donne, vecchi e bambini. Al deposito centrale, dove si trova il comando, è una folla.

I dispacci che arrivano dalle altre “stazioni” del Nuorese parlano chiaro: 33 a Bitti. 27 a Lula, 40 a Dorgali.

Ce n’è per lutti: non mancano i sindaci, i segretari, i consiglieri, persino qualche parroco.  Alcuni latitanti (minori) si costituiscono.

Agli arresti succede il sequestro dei beni. Animali e cose vengono marchiati a fuoco con la sigla SG, "sequestro giudiziario”.

Alla sola famiglia Serra-Sanna vengono sequestrati beni per un valore di seimila lire.

Nei mesi successivi la lotta contro i banditi si sposta nelle campagne. I due fratelli Serra-Sanna, Elias e Giacomo, sono ancora vivi. 

Il 10 di luglio centinaia di carabinieri e di fanti si scontrano con la loro banda a Mor­gogliai, tra Oliena e Orgòsolo.

Fu l’ultimo rifugio dei banditi sfuggiti a tutte le cacce.

 

Elias più giovane di sette anni del fratello Giacomo, era di lui più crudele e determinato. Mancava in quel momento per chiudergli gli occhi la mano della sorella. Nel 1900 sa Reina sarà condannata a 18 anni di carcere. Dalla sen­tenza emerge chiaro il suo ritratto: «Triste figura di donna», si annoia, «dal cuore perverso quanto i di lei fratelli, crudele con le vittime, ecci­tatrice e consigliera con ogni modo possibile dei banditi di lei fratelli e degli altrettanto feroci loro compagni». Un ritratto più veritiero, forse, di una sua foto dove le decise linee del viso sono come addolcite da un certo sfinimento dello sguardo che può essere scambialo per rimpianto di una vita normale.


Paska Devaddis

 

( Orgosolo - Novecento)


La banditessa vergine

Occupò un posto che non le spettava nella lotta che insanguinò dal 1905 al 1917 il paese, contrapposte le famiglie Cossu, Coràine, Succu, Moro e Devaddis. Nel 1912 fu indicata fra gli assassini di Antonio Succu. Spiccato l'ordine di arresto nei suoi confronti, prese la via dei monti. Morirà di tisi a 25 anni, in una grotta del Supramonte, assistita dal fidanzato e dai banditi suoi amici. Fu trovata sul tavolo di casa, vestita con il costume della festa. Distesa sul tavolo della camera mortuaria rivela il suo ultimo segreto ai medici legali che appuntano, forse sorpresi: "la ragazza ha ancora interi i caratteri della verginità."


Sul Supramonte, nel cuore aspro del montano Gennargentu, a novembre del 1913 era già inverno. 

Paska, adagiata in fondo alla caverna di roccia, non avvertiva neppure il calore del fuoco acceso in un angolo. 

Quando gli occhi della giovane donna si chiusero, i sei uomini vestiti da pastori che le stavano intorno la coprirono con un lenzuolo di lino candido e un pesante gabbano d’orbace. Spensero il fuoco buttandovi sopra dell’acqua. Sollevata la lettiga di frasche dal pavimento di pietra della grotta, uscirono nella notte. 

I  sei uomini con la lettiga erano banditi. E anche Paska era un bandi­to.

Camminarono per più di tre ore dall’ombra della montagna al bianco delle case di Orgòsolo ancora lontane dall’alba.

Orgòsolo, nome antico che richiama, a pronunciarlo, il gorgoglio dell’acqua che sgorga stretta da una fenditura della roccia, del vino bevuto dalla zucca, in piedi, la testa rovesciala all’indietro, o del sangue dall’arteria squarciata. 

Arrivati in paese i sei banditi si fermarono davanti alla porta della casa di Paska. Non ci fu bisogno di bussare. I due battenti si aprirono silenziosamente. Portata dentro la giovane donna ormai fredda e pallida come il marmo, l’adagiarono su un grande tavolo, i piedi rivolti alla porta, pronta a proseguire il suo viaggio verso l’eternità. 

II dovere era stato compiuto: secondo la tradizione, chi vive fuori dalla legalità e muore in latitanza dev’essere restituito alla famiglia.

Famiglie tormentate, quelle di Orgòsolo e della Barbagia di quel tempo, coinvolte in una vicenda di faide che sconvolse anche l’assetto sociale del paese e dell’intero territorio.

Paska Devaddis era una povera fanciulla gracile e malata e la sua vita fra i banditi fu breve. 

All’alba i banditi erano di nuovo nel loro rifugio sui monti e Paska era adagiata sul suo letto di fanciulla, circondata da candele accese. Si dice che la sorella, l’unica della famiglia rimasta ad attenderla, la vestì con I costume di nozze preparato da tempo.

Nozze di cui si era fissata tante volte la data ma che non erano state mai celebrate perché il fidanzato Michele Manca, era in carcere accusato di omicidio.

Quella mattina del 7 novembre i primi a visitare la casa di Paska furono i carabinieri e il medico del paese chiamati per certificare davanti alla legge la morte della giovane, vissuta alla macchia per più di un anno.

Dal referto medico risulterà che Paska Devaddis era morta per tubercolosi e che aveva conservalo intatta la propria verginità.

 

Ma chi era Paska Devaddis dì Orgòsolo?

Per il mito fu «Reina di Orgòsolo e de bandidos sorre e sentinella. De sa disamistade in sa burraska in sa notte orgolesa fìd istella. Paska Devaddis reina e bandida». («Regina di Orgòsolo, sorella e sentinella dei banditi. Nella burrasca della faida fu la stella della notte orgolese. Pasqua Devaddis, regina e banditessa».)

Così la celebra il grande antropologo sardo Michelangelo Pira in un suo radiodramma.

Per la Storia una donna giovane, dal carattere forte e dal cuore caldo, trovatasi a un tratto protagonista suo malgrado nella inimicizia che decimò, dai primi anni del secolo sino alle “paci” di Posada nel 1916, le due famiglie orgolesi dei Cossu e dei Corraine e le famiglia loro alleate, fra cui i Devaddis.

 

 

 

 

La tempesta delle vendette infuriò, come una maledizione tra le due diverse fazioni.

Alla fine della disamistade i morti saranno più di venti.

La faida terminò nell’agosto del 1916, quando le autorità dello Stato riuscirono a convocare nelle campagne di Posada i capi delle fazioni in lotta. Alla cerimonia tribale dì riappacificazione, antica quanto i primi abitatori della montagna, i sopravvissuti giurarono di non combattersi più. Il processo della disamistade fu celebrato a Sassari da marzo a giugno del 1917.

Paska Devaddis era entrata nella faida nel giugno del 1912. Da spettatrice attenta e partecipe ai fatti di sangue che funestarono la gente orgolese diventò protagonista dopo l’omicidio di Antonio Succu soprannominato Caretta, ucciso nella sua casa davanti alla madre, alla nonna centenaria e alla sorella Mariangela, che affermò di avere riconosciuto in Antonio Devaddis e Giuanne Corraine gli assassini del fratello. Dalle indagini sulla morte di Caretta risultò che la notte stessa, poco prima del delitto, Paska Devaddis era stata vista in prossimità dell’abitazione dei Succu. Davanti al mandato di cattura, Paska decise di prendere la via dei monti.

Non fu tentata neppure di fuggire in America assieme al fidanzato, come consigliavano alcuni parenti.

Dalle allegre compagnie femminili, dalle feste comunitarie in compagnia del suo fidanzato, dalle serene abitudini di una casa agiata e un tempo benvoluta la ragazza passò a una vita durissima e insicura condivisa con altri latitanti il cui unico intento era eliminare i propri nemici con rapidissime discese in paese: ominìas, “cose da uomini”, alle quali non era abituata.

Pare che a questa specie dì spedizioni punitive partecipasse alla fine anche Paska, assieme ai suoi compagni di latitanza.

E c’è da crederci. La giovane, che nonostante la malattia che già la tormentava aveva nelle vene il sangue caldo dei Devaddis, sentiva in modo imperioso l’orgoglio di casta e l’attaccamento alla famiglia.

Durante la disamistade aveva assistito all’arre­sto del fratello Battista, accusato di omicidio e condannato  a 18 anni di carcere; nello stesso anno era stato ucciso du­rante un conflitto con le forze dell’ordine un altro fratello latitante, Francesco.

Come se ciò non bastasse, ad arroventare il forte animo di Paska che mal sopportava la fragilità del suo corpo, successivamente era stato ar­restato anche il padre, abbastanza in là con gli anni. Giuseppe Devaddis era accusalo di non essere estraneo un omicidio né a un tentato omicidio: avrebbe sempre negato con decisione ogni coinvolgimento.

Sulla vita di Paska Devaddis tra le montagne del Gennargentu si rac­contano episodi dati per certi, ma ai quali non si può negare il sapore della leggenda. Fra gli altri si ricorda l’avventura di due giovani carabi­nieri che, mandati a caccia di banditi sul Supramonte e saputo che fra quelle montagne si nascondeva una giovane banditessa, dissero che se l’avessero trovata le avrebbero infilato le mani sotto la gonna. E se la trovarono davanti, infatti, una mattina alle prime luci. «Mi mandano a dire dal paese», disse loro, «che due giovani carabinieri mi stanno cer­cando per sollevarmi le gonne. Siete voi per caso?». I due miliari non ebbero neppure il tempo di mettere mano alle armi che i loro berretti già volavano via tra le macchie colpiti da due palle ben indirizzate. Stupiti di ritrovarsi vivi e senza una scalfittura, se la diedero a gambe. Raccontarono a tutti il loro fruito incontro dicendo che Paska, donna bellissima e bruna di capelli, era apparsa all’improvviso come una visione nella luce dell’alba e aveva sparato senza neppure alzare il fucile all’altezza della spalla. Evidentemente la paura gioca brutti scherzi, per­ché a quanto si dice Paska Devaddis bellissima non era.

 

Tratto dal libro "Le banditesse" di Franco Fresi

Fonti: www.contusu.it e www.ladonnasarda.it


Barbaredda, la Biancaneve Sarda

Tra storia e leggenda della donna "balente"

Nel lontano 1937, le vacanze natalizie dei bimbi di tutto il mondo vennero rese ancor più magiche dal primo film d'animazione della storia "Biancaneve e i sette nani". La celebre fiaba fiamminga dei fratelli Grimm venne resa celebre da Walt Disney, che con Biancaneve fu pioniere del nuovo universo dei lungometraggi d'animazione.

 

Ma ben prima che la voce soave dell'eroina disneyana approdasse nelle sale cinematografiche i bimbi sardi avevano appreso che la paura delle incognite, incarnate dalla selva boscosa della macchia barbaricina, vanno affrontate e superate per poter diventare dei veri balentes o delle donne forti capaci di contribuire concretamente e attivamente nel tessuto sociale del borgo natale.

I bimbi sardi avevano la propria Biancaneve, che in tutto e per tutto ricorda la bella principessa Nord europea: Barbaredda, che a seconda dei luoghi diventa Maria de su boscu, ma che rimane profondamente inculturata nel contesto barbaricino.

 

Il racconto della tradizione popolare riporta la memoria di dodici fratelli, ammirati e temuti al contempo per la grande abilità nel consumare bardane, abigeati e sequestri senza esser mai catturati dalla giustizia. È da tempo che però che i dodici balentes decidono di porre fine alle scellerate scorrerie perché hanno messo da parte un così grande tesoro che possono pensare di viver serenamente. Ma prima è bene celebrare la grande decisione con l'ultima rapina che sarà anche il modo di festeggiare la nascita imminente del membro più piccolo della famiglia.

 

Rientrano dopo pochi giorni portando con sé un greggio, mandrie, ed altri beni di incommensurabile valore tanto da rendere insufficienti i pascoli circostanti. Nel frattempo in casa è nata una bimba, la sorellina dei balentes. In realtà far rientro a casa è ritenuto un atto di imprudenza: le persone derubate sono tante ed è cosa buona ritirarsi a banditare sui monti in attesa di poter amministrare in seguito, con maggiore circospezione, il nuovo regno. 

 

In realtà Barbaredda cresce in estrema povertà, con il padre e la madre, nella miseria di una pinnetta di campagna, la tipica costruzione pastorale del centro Sardegna che ricorda i trulli pugliesi. 

Soffre il freddo e la fame e pensa di non gravare sui poveri genitori prestando servizio presso una gentile locandiera, laboriosa e di bell'aspetto. Col passare del tempo gli avventori della locanda non vogliono esser serviti se non da Barbaredda che è divenuta una fanciulla di rara bellezza e saggezza. La padrona, per senso degli affari e ancor più per invidia femminile decide di incaricare un gruppo di briganti dell'omicidio di Barbaredda: senza troppo clamore, in cambio di duemila scudi dovranno consegnare alla donna il cuore di Barbaredda avvolto nella sua camicetta.

Sul far del rientro la ragazza si trova nel bel mezzo dell'agguato e intuendo la perfida trame della scaltra padrona guarda i banditi spavaldamente negli occhi.

"Uccidetemi pure - tuona Barbaredda - ma i miei dodici fratelli vi troveranno in capo al mondo e mi vendicheranno.

Vi scanneranno uno ad uno, daranno fuoco a quella sudicia locanda e al bosco intero".

Il fratello maggiore capisce subito che la ragazzina impavida è la sorella, abbandonata anni prima per la latitanza e decidono di tenerla con loro, farla vivere come una regina e lei si occuperà di dare calore al focolare domestico con le cure femminili alla dimora silvestre. Un giorno però i fratelli non faranno più ritorno poiché sterminati da una faida sanguinosa.

Ora Barbaredda è davvero sola. Ma non indifesa. Un giorno aiuta un elegante signore di città a catturare un enorme cinghiale che è spunto di sarcasmo per tutti i cacciatori dell'isola. La ragazza riuscirà ad avere la meglio sugli avversari e consegnare il cinghiale a colui che si rivela essere il principe. Il monarca si dichiara ai genitori di Barbaredda, che non trascurerà di giustiziare la perfida locandiera.

Il lieto fine è garantito, ma Barbaredda non può considerarsi l'equivalente sarda della mesta principessa della pellicola Disney. Come nella più antica tradizione di "Balentìa" la donna sopravvive all'uomo balente; sa che per superare le difficoltà dovrà farsi dura, non esiste un universo di dolcezza premiato dal canto mattutino degli usignoli. 

 

Nella fiaba sarda è sconfitto, simbolicamente, il male sardo più difficile da sradicare, l'invidia. Neutralizzato il germe infetto dell'invidia l'eroina raggiungerà l'obiettivo ambito, che non corrisponde al mito romantico del matrimonio con il principe ma quello di essere una vera "balente", che non a caso è un termine indeclinabile al femminile.

Fonti: www.ladonnasarda.it