DICONO DI LEI

"…E c’è voluta una intelligenza collettiva e una ostinazione anche del paese, a cominciare dalle donne, che non hanno voluto monumenti ma luoghi comunitari, non opere d’arte in senso tradizionale, ma nuove occasioni per esercitare la vita sotto il segno della creatività e dell’alleanza, per riavere un antico lavatoio o una Via Crucis. (…)"

 

Filiberto Menna, giugno 1982


“..è stato l’intero paese a ricostruire una rete di relazioni legando casa a casa, porta a porta, finestra a finestra e soprattutto persona a persona superando nell’evento estetico del Legarsi alla Montagna rancori e inimicizie e diffidenze remotissime. Forse che il grande sogno ad occhi aperti dell’arte moderna di cambiare la vita si sia realizzato, sia pure una volta soltanto, proprio qui, in questo luogo lontano dove i nomi dell’avanguardia artistica non sono altro che nomi? Credo di si: qui, l’arte è riuscita là dove religione e politica non erano riuscite a fare altrettanto…”

 

Filiberto Menna su Legarsi alla Montagna


"Maria viveva in un mondo diverso dal nostro e cresceva estranea a noi fratelli. Eravamo gelosi di lei, anche perché ci sembrava la preferita di babbo e di mamma, e di lei sentivamo sempre gli elogi. Quando stava con noi comunicavamo soprattutto attraverso i disegni che lei realizzava col carbone sulle mattonelle di un terrazzo. Le stavamo intorno, sdraiati per terra, per delle ore, pieni di stupore. Lei disegnava e raccontava, nascevano piccoli scenari animati da figure in movimento e da storie inverosimili. Si partiva sempre da oggetti a portata di mano come sassi, conchiglie, pennacchi di canna, barchette di sughero; vivevamo quelle storie in prima persone perché ci veniva assegnato un ruolo e un personaggio, e il gioco riusciva benissimo. Quando Maria partiva, rientravamo tutti nella nostra realtà.

I vestiti di Maria venivano dalla città e mi sembravano bellissimi, quando diventavano piccoli mi venivano assegnati come sorella minore, anche se tentavo di rifiutarli perché non mi erano congeniali e non legavano col modo paesano cui appartenevo. Gli zii avevano una casa in campagna vicino al mare, su una collina che guardava un nuraghe. Una casa grande dove Maria disponeva di una vasta stanza per giocare. Le pareti erano libere e lei disegnava col carbone fino a riempirle tutte come una grande lavagna al negativo. C’era sempre qualcuno che dava una mano di calce perché lei ricominciasse il gioco. Fu mandata a scuola tardi, ma gli zii le avevano insegnato a leggere e a scrivere; erano riusciti a farsi amare fino a essere preferiti ai genitori, così mi pareva.

Quando Maria ebbe quattro o cinque anni, gli zii ospitarono nella loro campagna due famiglie di girovaghi che si erano rifugiati in Sardegna sin dalla prima guerra ed erano in attesa di lasciare l’isola. Avevano a disposizione una grande aia che divenne brulicante di vita, i loro bambini venivano educati a divenire giocolieri da circo e Maria ne era affascinata. Le fu data la libertà di frequentarli a tempo pieno, partecipando anche agli allenamenti. Venne il momento che i carrozzoni si mossero per lasciare l’aia e si portarono via anche Maria che si era nascosta dentro. Gli amici zingari la riportarono indietro dopo la mezzanotte e gli zii, a seguito di ore di angosce e di allarme, accolsero Maria in silenzio e mai più si parlò di quella fuga. Da allora, quando veniva a Ulassai per brevi visite poteva stupirci anche con le acrobazie da saltimbanco che tentava invano di insegnarci.

Dopo qualche anno lo zio morì tragicamente e poco dopo anche la zia non sopravvisse al dolore, immane trauma per tutti, ma soprattutto per Maria che fece rientro in famiglia.

Ci volle molto tempo perché lei si abituasse a noi e noi a lei. Da questa situazione scaturì qualcosa di meraviglioso: diventavamo amiche, anche se io continuavo a sentirla diversa come quando venne a mancare la sorellina: mentre io piangevo incredula e disperata, Maria dipingeva fiordalisi lilla sul piccolo cuscino di seta che avrebbe accolto quella testina. Per quella tomba mio padre si rivolse allo scultore più famoso dell’isola perché ci desse in marmo bianco il ritratto della bambina. Per lo scultore le foto di cui disponevamo non erano sufficienti e poiché Maria somigliava alla sorellina, fu invitata a posare. Maria frequenta così lo studio dello scultore, prende familiarità con la creta. Il ritratto della sorellina era terminato ma Maria continuava a frequentare quello studio, affascinata dall’artista che incoraggiava le sue attitudini. Ci misero in collegio, e di quel periodo ho presenti le fisionomie delle compagne, il loro posto a mensa e a studio e il letto nel dormitorio. Ricordo le risate represse nelle ore di silenzio, le trame ordite alle suore intransigenti, gli obblighi, i divieti, le esplosioni di chiasso nelle brevi ore di ricreazione. Il tutto scandito con scampanellate e preghiere più o meno devote. Quando lasciai il collegio ero convinta di aver legato vincoli indissolubili con quelle compagne che poi non ho più visto. Mia sorella si adattava a quella disciplina e noi lei sembrava quasi dall’altra parte. Questa sua diversità mi faceva soffrire, per gioirne poi quando elargiva disegni, ritratti, colombe ritagliate su carta bianca con cui le suore avevano ornato la cappella a Pasqua. Quando si andava in dormitorio e si spegnevano le luci, Maria mi accoglieva nel suo letto e mi scaldava calmando le mie paure inconsce e forse mi perdonava qualche tradimento."

 

Giuliana Lai