Società

Le donne "dietro le quinte" della Settimana Santa

La Settimana Santa in Sardegna è un incredibile e affascinante retaggio della dominazione spagnola, dopo quattro secoli rimasto intatto con i suoi riti scenografici imperscrutabili, drammatici, quasi gotici.

Dalla domenica delle Palme all'allestimento del Santo Sepolcro, dal tragico rituale de s'Iscravamentu fino alla liberatoria Resurrezione di Cristo. Tutti i tasselli di questa maestosa rappresentazione sacra sono ripetuti e rispettati con meticolosa precisione, tramandate con la sola forza della tradizione. Una tradizione che ha resistito grazie a una ostinazione tipicamente sarda, anche se vari interventi di modernizzazione, nel corso soprattutto del '900, hanno cercato di minarne l'integrità. È quello che ci racconta Monsignor Tonino Cabizzosu, scrittore e docente di Storia della Chiesa nella Pontificia facoltà teologica di Cagliari.

Durante i primi decenni del secolo scorso, nel periodo fascista, i rituali della tradizione sacra in Sardegna hanno infatti subito dei pesanti attacchi. Il governo unificatore, che imponeva l'uso di un'unica lingua, ha cercato di vietare e sicuramente ha limitato l'uso del sardo nella religione e ha cercato di abolire tutti i riti di "importazione" spagnola. I vescovi venivano appositamente mandati dal continente per impartire l'uso dell'italiano nelle funzioni e nel 1924 ci fu persino un Concilio Plenario che aboliva la predicazione in sardo (di fatto l'unica lingua che il popolo comprendeva e parlava) i gosos e i canti liturgici. Addirittura condannava le gare di poesia estemporanea nelle piazze.

Nonostante i divieti però, sono state soprattutto le celebrazioni della Settimana Santa a rimanere prepotentemente radicate in tutti centri della Sardegna e non c'è paese che ancora oggi non le onori. Monsignor Cabizzosu è certo che la radice di questo legame sia da ricercare nel matriarcato sardo, silenzioso custode e messaggero della religione nelle famiglie dell'Isola. La donna, quindi, non solo padrona del focolare ma anche instancabile protagonista dietro le quinte della vita religiosa.

Non ci sono documenti che attestino questa laboriosa attività di donna - le carte infatti parlano solo al maschile - eppure è cosa certa che senza la confraternita femminile di Santa Croce i riti della Settimana Santa in Sardegna si sarebbero probabilmente persi da tempo. Se è vero che da Alghero a Iglesias, da Castelsardo a Nuoro passando per il Logudoro e il Campidano, i figuranti sono tutti uomini si può affermare che "la regia" sia affidata alle donne.

La Settimana Santa inizia la Domenica delle Palme e prosegue il mercoledì successivo con l'allestimento del Sepolcro di Gesù: sono le donne a occuparsi della biancheria per l'altare, a piantare e a far germogliare sos ninniris, a intrecciare sas palmas creando delle certosine opere d'arte. E ancora, sono le donne della Confraternita a gestire il complicato allestimento de s'Iscravamentu nel quale gli uomini vanno in scena insieme al simulacro di Gesù Crocifisso: sono i giudei e gli apostoli che depongono il Cristo Morto e sono gli inquietanti incappucciati delle confraternite che fanno risuonare sas matraccas nelle vie del centro storico. Una rappresentazione con soli attori uomini come nella più classica tradizione teatrale, dall'antica Grecia in poi.

Solo in un caso abbiamo notizia di figuranti donne, che interpretano le pie donne Maria di Magdala, Maria di Cleofa e Maria Madre di Gesù. Nel Vangelo sono loro le prime a scoprire che Cristo è risorto e nelle celebrazioni vengono presentate sempre al suo seguito. Si trovano ai piedi della Croce durante s'Iscravamentu il Venerdì Santo, il sabato alla Veglia e la mattina di Pasqua mentre aprono la processione insieme al simulacro della Madonna.

È curioso che nella maggior parte dell'isola questi tre ruoli siano affidati a delle bambine o al massimo a delle adolescenti, anche se Monsignor Tonino rimarca che in alcuni paesi sono interpretati da donne adulte. La figurante della Maddalena ha il capo scoperto e i capelli sciolti sulle spalle come nell'iconografia più classica: tutte e tre indossano due abiti, il venerdì e il sabato quello nero, la domenica  quello bianco, come la Madonna Addolorata la cui vestizione viene curata dalla Confraternita femminile e proprio la mattina di Pasqua viene spogliata degli abiti di lutto e del cuore trafitto per essere portata in corteo con un abito e un velo candido.

In molte zone dell'isola, i bambini partecipano nel ruolo di angeli: sos angheleddos, vestiti rigorosamente di bianco e con ali di cartapesta. Si occupano di raccogliere i chiodi che i Giudei estraggono dal simulacro del Cristo Morto durante s'Iscravamentu mentre la mattina di Pasqua marciano (chi di loro sa già camminare) nella processione de s'Incontru dove le statue di Gesù e Maria, idealmente accompagnate da tutta la popolazione, si incontrano tra voli di colombe e spari di fucile.

Con la Messa Pasquale si conclude un lavoro importante, il più impegnativo dell'anno per la Confraternita femminile, e specialmente per la Priora designata dalle consorelle in base alle capacità organizzative e di leadership. Un tempo rimaneva in carica a vita e solo suo era il compito di scegliere chi avrebbe interpretato le tre Marie (causando, si mormora, non poche rivalità tra le ragazze di paese).


Sas Orassionarjas e l'aura benefica dei bimbi illegittimi

Furono le antiche donne di preghiera del popolo, chiamate orassionarjas, a dare nuova dignità sociale ai bimbi definiti dalla comunità burdittos.

I figli illegittimi per le donne delle orazioni - antiche sibille che curavano con la preghiera - avevano un potere divino.

Erano considerati dalle anziane curandere come fortemente voluti da Dio, poiché arrivati sfidando la sorte di chi non li desiderava. Non è certo che vi sia stato un tempo in cui le orassionarjas avessero conoscenza del sacrificio del primogenito alla dea Astarte, anche se nell'isola sono numerosi i tophet cinerari di origine fenicio punica che testimoniano la pratica della prostituzione sacra finalizzata all'immolazione dei piccoli burdos primogeniti al volere della dea.

La prostituzione sacra doveva garantire fecondità e prosperità a tutta la comunità, era dunque imprescindibile per la società sarda pre cristiana. Nel lento passaggio dal rituale pagano a quello, ancora, semicristianizzato la figura che si fece carico di quest'onere fu la orassionarja. Era lei che custodiva il potere della preghiera magica che mettesse in relazione le richieste del popolo e le disposizioni della divinità. 

Figura ibrida tra la sacerdotessa-prostituta sacra e la bruxia, l'orassionarja doveva farsi carico di un'incombenza che assumeva, per le istanze di una morale moderna, le tinte di un'ingiustizia sociale. Infatti, affinché i medicamenti e le orazioni somministrati dalle guaritrici risultassero pienamente efficaci esse dovevano avere almeno un figlio, pur non essendo maritate. Il bimbo era, inevitabilmente non legittimo perché un uomo per bene della comunità non si sarebbe mai unito in matrimonio con una donna ritenuta di facili costumi, così come accadeva per le orassionarjas.

Il destino di vergogna e l'onta dello sfruttamento non impedivano alla curatrice di rendere gratuitamente i propri servigi alla comunità. Non tutte le giovani di facili costumi erano, tuttavia, abilitate a somministrare formule e guarigione, lo erano solo quelle alle quali era riconosciuto un certo rapporto di vicendevole affinità e simpatia per le capre. Soltanto a costoro si riconosceva una grande efficacia delle orazioni magiche apprese. Probabilmente gli anziani del villaggio intuivano già all'epoca l'invulnerabilità dell'animale a qualsiasi malattia. La capra é infatti l'unico essere vivente immune da qualsiasi forma di tumore.

Ancora oggi nel Campidano di Cagliari, la prostituta viene definita "craba de appitzu 'e monti" (capra di montagna) con la quale espressione é facile rievocare la prostituzione sacra che avveniva a Capo Sant'Elia, presso il leggendario tempio di Astarte. Le orassionarjas erano solite intervenire per alleviare i problemi della partoriente e per evitare che i bimbi morissero in parto.

Riporta l'antropologa Dolores Turchi: «Una donna di Lula alla quale morivano i figli dopo qualche giorno di vita si rivolse a una vecchia orassionarja che le consigliò di chiedere in prestito sa 'estedda 'e su burdu (il camicino di un bimbo bastardo) e di farla indossare al suo bimbo appena fosse nato. In questa maniera riuscì a salvare gli ultimi tre figli. Indossare il camicino o la cuffietta d'un bimbo bastardo era come mettere indosso al bimbo in pericolo un talismano». Forse l'idea di un bimbo non previsto era legato all'idea di sacralità perché frutto di un desiderio non trattenuto e perciò stesso fecondo.